Lucia di Lammermoor senza tartan

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Domenica pomeriggio, a casa con un raffreddore gigante, male di stagione. La prospettiva positiva è potersi godere la Lucia di Lammermoor da Monaco. Mi attrezzo di tutto: scialle, molti fazzoletti, un piccolo rinfresco con biscotti e mi connetto con Monaco. Già la vista del teatro mi mette allegria così come il sovrintendente Nicolaus Bachler che mi racconta la storia e pregusto un piacevole fine di pomeriggio. Ma non avevo fatto i conti col vento che flagella la costa del mare Adriatico, con la connessione Internet che comincia a saltare, prima ogni tanto, poi più spesso e alla fine, a metà del primo atto blackout totale. Vado a letto sconsolata ma la mattina dopo il mio caro Angelo viennese mi regala la gioia di potermi gustare questa Lucia che, devo dire subito, ho trovato interessantissima e come sempre per le rappresentazioni del BSO di notevole livello sia musicale che registico.

Comincio dalla regia: stranamente mi accorgo quanto sia femminile la storia e con quanta sensibilità viene raccontata. Infatti la regista è una giovane donna: Barbara Wysocka e il suo punto di vista si riflette su tutto l’impianto scenico, a cominciare da quella bambina con la pistola nel preludio che ci proietta nella tragica dimensione della memoria. Anche il quadro della fontana a cui Lucia rivolge il suo racconto iniziale sembra addirittura renderlo più concreto di quanto generalmente avviene davanti a patetiche fontanelle di scena.

Questa Lucia non è mai insanguinata, il sangue scorre a fiumi nella truce storia ma lei resta candidamente bianca nel suo ferale abito nuziale. La presenza, fisicamente molto piacevole dell’amato Edgardo, cosi’ ribelle alla James Dean come il fratello oppressore al quale Lucia parla con enfasi di donna che vuole combattere per il suo diritto di amare sono i personaggi maschili con i quali si confronta una donna che negli anni in cui viene trasportata la storia sono forse l’ultimo periodo in cui le figure femminili si potevano pensare ancora soggette alla supremazia dell’uomo.

Un colpo di genio dietro l’altro la scena della pazzia, con quell’uso del microfono in cui la povera pazza sublima il suo perduto canto d’amore, la paura degli invitati, il continuo tentativo di bloccarla da parte del gregario e del fratello, il suo essere lucidamente padrona del suo destino finale. La musica sembra addirittura diventare una colonna sonora dei gesti.

Diana Damrau, sulle cui qualità vocali nessuno ha mai dubitato ci regala una grande prova d’artista capace di incarnare una donna vera, con tutte le ribellioni e le tensioni che il personaggio aveva in sé e che non sempre emergono da simili scene ridotte a spettacolari vocalizzi che dimostrano solo le capacità tecniche e vocali delle interpreti. Pavol Breslik ha le physique du role, qualche volta la sua vocalità risente della difficoltà di accordarsi con i tempi esasperatamente lenti della direzione di Kirill Petrenko soprattutto nella prima parte dell’opera. Diversamente, quando nel finale la direzione d’orchestra pare avere trovato finalmente un tempo, oseremmo dire più donizettiano, la sua romanza “Tu che a Dio spiegasti l’ale”  ne dimostra anche le ottime qualità belcantistiche. Unterlinden-Glass_harmonica_(2)

L’uso della glassarmonica, aldilà della curiosità filologica, mi ha lasciata abbastanza fredda. Non si giustifica questo ritorno alle origini quando il dialogare della soprano col flauto resta una delle più felici intuizioni musicali belcantistiche. Se accetto e mi piace molto una Lucia senza i tartan d’ordinanza non vedo perché parimenti si debba andare a riscoprire una curiosità musicale superata dall’avere migliorato la pagina immortale della follia della sposa di Lammermoor. Ovviamente queste note sparse non sono una recensione di uno spettacolo visto solo in video. Conosco bene l’impatto sia visivo che musicale che ha la rappresentazione dal vivo, per la recensione vera rimando i miei lettori alla prossima estate quando, a Dio piacendo, vedrò lo spettacolo dal vivo al BSO.

Per ora mi confermo che la tanto vituperata Inszenierungregie è per me la via più affascinante per rileggere anche i sacri testi del melodramma italiano .