Jenufa

Con ritmo ossessivo scorre l’acqua del mulino , uno spazio chiuso, le donne in nero , le culle appese , ma forse sono luci che illuminano le mani che sbucciano le patate , poi le sagome scure degli abiti appesi diventano uomini che vanno al lavoro.

Si apre così lo sfolgorante spettacolo della Jenufa , creato per la ROH e meritatamente ripreso dal Teatro dell’Opera di Roma.

Una storia straziante , una colpa diffusa nella crudele indifferenza di un villaggio moravo , la storia crudele di un infanticidio e una musica così sconvolgente in cui la linea melodica si interrompe continuamente lacerandosi nel canto.

Janaçech , autore di libretto e musica scrive alla fine dell’Ottocento una storia  modernissima dove non esiste un confine tra il bene e il male , dove tutti sono vittime e colpevoli, dove solo nell’accettazione di un tristissimo destino si apre uno spiraglio di pace nel finale senza felicità.

Lo stupendo spettacolo di Claus Guth , formalmente elegante , coniuga la fedeltà intrinseca alla musica con una cura perfetta di ogni gesto dei tanti superbi interpreti su cui spiccano fra tutti una Karita Mattila che ha la potenza recitativa di una eroina classica e la ieratica presenza delle rigida “vecchia” di Manuela Custer.

Tutti bravissimi , credo nessuno di madrelingua ceca e sotto la bacchetta di un ispirato Juraj Valhcuha ci hanno regalato una indimenticabile rappresentazione con un unico rammarico , i troppi vuoti in teatro, laddove un simile spettacolo semmai giustificava addirittura un secondo ascolto per meglio entrare in un universo musicale ricchissimo in cui si possono ritrovare preziosi echi pucciniani e non solo.

Ci si incanta nella bellezza formale del primo atto , si piange e si ascolta col cuore stretto il secondo atto mirabile come un colpo al cuore e ci si placa nel finale dove l’amarezza di una pace conquistata nel dolore si ferma nell’immagine di Jenufa che svuotata di ogni speranza prende la mano del suo compagno.

La vita , nella semplice amara verità è anche questo.