Pensieri musicali…

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Due episodi apparentemente diversi mi portano a riflettere sulla capacità di trasmettere emozioni nella nostra lingua e attraverso la nostra memoria.

Noi italiani siamo piuttosto propensi a sottovalutare la portata del nostro pensiero, della nostra musica e in ultima analisi della nostra storia.

Ai funerali laici  di un vignettista di Charlie Hebdo con commozione e intensità si sono alzate le parole di Bella ciao e quel morto per la libertà ripetuto con la gola stretta e cantato con vigore mi ha colpito perché ho capito che la forza del pensiero e delle parole passa anche attraverso le varie lingue e ci rende molto più vicini.

Allo stesso modo quando Lissner ha aperto la serata inaugurale del nuovo auditorium parigino ha voluto tutto il coro schierato, compostamente in nero per dare un segnale in memoria dei tragici attentati parigini ed ha scelto il bellissimo Va pensiero del Nabucco di Giuseppe Verdi sottolineando l’anelito alla libertà di un intero popolo contenuto in quei versi e in quella musica.

Quelle note, che qualcuno avrebbe voluto anche come inno nazionale al posto del nostro affettuosamente pompier Inno di Mameli, hanno una portata universale, come universale ho capito essere anche il vecchio canto popolare con le parole di Bella ciao.

I nostro cugini francesi con la forza di una grande cultura laica ci hanno ricordato i grandi valori che qualche volta noi sottovalutiamo e che sono parte della nostra anima.

Le arie di Andrea Chenier

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L’Improvviso dell’Andrea Chenier sembra essere l’unico momento importante dell’opera di Giordano, in realtà ci sono perlomeno tre arie famose nell’opera ed io oggi voglio parlarvi di una di queste in relazione al cinema ed a una famosissima interprete: Maria Callas.

Ci sono due bellissimi film, molto diversi tra loro, che hanno avuto grazie a questa aria e a questa interprete il loro momento più suggestivo e pur nelle diverse intenzioni, collegate fra loro.

Mi riferisco all’aria La mamma morta interpretata in modo sublime da Maria Callas.

Il primo film è Philadelphia di Jonathan Demme, pluripremiato agli Oscar con Tom Hanks.

La suggestiva scena del ballo tra il malato terminale di AIDS e il suo compagno Antonio Banderas sulle note struggenti dell’aria di Giordano sono uno dei momenti clou del film e quello che sicuramente colpisce di più il cuore degli spettatori.

Ricordo all’uscita del film il successo della colonna sonora, sicuramente il traino lo faceva la canzone del titolo Philadelphia cantata da Bruce Springsteen, ma molti giovani impararono in quella occasione anche a conoscere la bellissima aria d’opera cantata dalla Callas.

L’altro film contiene addirittura nel titolo la stessa aria: Io sono l’amore di Luca Guadagnino, un film raffinatissimo e straordinario che forse non ha avuto la risonanza che meritava, pur essendo stato il film italiano candidato all’Oscar nel 2011.

Qui Tilda Swinton guarda alla televisione la scena del film di Demme e le stesse note, la stessa struggente aria sono il commento al suo cammino psicologico di liberazione.

Possiamo quindi dire tranquillamente che Andrea Chenier, quest’opera verista e molto amata in anni lontani, è un po’ troppo vicina al cliché della Rivoluzione francese vista con la frase di Marie Antoinette : Donne lui des brioches non è solo Un dì all’azzurro spazio come sembra essere in questi giorni tutto lo spazio che viene dedicato all’aria famosissima cantata dal solito Jonas Kaufmann e che separano dalla prima del ROH.

C’è comunque molto di più e se come spero l’edizione londinese ne leverà il lato troppo retorico di racconto pseudo storico visto dalla parte dei ricchi credo che potremo assistere ad un repêchage intelligente come peraltro già fu fatto con l’Adriana Lecouvreur.

Anche perché il terzo momento topico dell’opera, il cavallo di battaglia per i baritoni – Nemico della patria – cantato dal perfido Gerard altro non è che una sorta di Credo di Jago dell’Otello verdiano in chiave verista. Riconosciamo a Umberto Giordano, un autore sicuramente oggi passato di moda, questa capacità di colpire in maniera popolare i temi forti che parlano con facilità al cuore degli amanti della lirica d’antan.

Un pensiero per Elena Obraztsova

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Corre sul web la notizia della morte improvvisa di Elena Obraztsova e oltre al dover constatare quanto poco nel nostro paese la scomparsa di una così grande cantante trovi spazio sulla nostra stampa il mio pensiero corre al grande gala che la Tv russa le aveva dedicato nell’ottobre scorso.

Lo avevo trovato molto kitsch e ne avevo anche scritto sul mio blog.

Ripensarlo adesso, come un necrologio a futura memoria mi sembra tutto più tragico.

La grande cantante se ne stava in un palco laterale a ricevere gli omaggi floreali di tutti i suoi più giovani colleghi, poi ad un certo momento si era alzata e aveva cantato in maniera sublime l’aria della vecchia signora della Dama di Picche.

Un momento di grande classe, direi forse l’unico della serata.

obraztsova_portrait

Inoltre passa continuamente su Classica il film di Zeffirelli Cavalleria Rusticana: quella Santuzza improbabile per i suoi occhi di ghiaccio era di una bellezza mozzafiato, la sua voce perfetta come la sua vis drammatica.

Elena Obraztsova se ne è andata improvvisamente, si è spenta un’altra splendida voce del novecento, penso sia pericoloso comunque rischiare questi eventi giubilari…rischiano di diventare pericolosamente anacronistici.

Ricordiamola come fanno in tanti con i suoi dischi e con le sue apparizioni televisive perché per fortuna adesso queste grandi voci non si perdono più del tutto nel mito ma possiamo ancora goderne nelle testimonianze registrate.

http://youtu.be/xeQBY_ZpejI

Videogame ed Europa

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Leggo il post di una mamma giovane.

Il suo bambino davanti alla televisione: Mamma, questo è un film vero?

In questo mondo dominato dalla civiltà delle immagini nel quale i videogiochi più cruenti e perfetti sembrano aver soppiantato i valori più importanti si rischia di perdere e soprattutto di far perdere alle menti più deboli il senso del reale e della sacralità della vita.

La visione dell’impatto dell’aereo sulle Torri Gemelle, visto e rivisto ha perso ogni tragico significato, piano piano è entrato in una sorta di mondo iperreale dove la tragicità si assomma all’effetto videogame e perde la sua valenza di orrore per trasformarsi in qualcosa di ripetitivo e totalmente astratto.

La frase innocente del bambino nasconde una terribile verità.

Oggi si è perso il netto confine tra il reale e il fantastico e questo in ultima analisi provoca anche una caduta del valore della sacralità della vita.

Chissà se i folli attentatori di Parigi non abbiano passato ore davanti ad una playstation fino a pensare che uccidere fa parte del gioco, che una vita umana ha un valore in punteggio veloce, in scorrere di dati che accompagnano azioni mirabolanti e sicuramente molto più prestigiose di quelle consentite anche ad un corpo giovane e ben allenato.

Ovviamente tra questo e il dire che è la società dell’immagine a produrre mostri si rischia chiaramente di fare un’affermazione minimalista e banale.

Ma la frase innocente del bambino mi ha fatto molto riflettere e non posso negare che anch’io sia rimasta inchiodata davanti al video per ore…in attesa di che?

Di sapere che il male assoluto era stato sconfitto? Questo lo provano i ragazzini davanti ai videogiochi, purtroppo sappiamo che il male non si combatte con mirabolanti salti e schizzi di sangue sul monitor.

Il sangue vero, quello che ha bagnato le strade di Parigi, la redazione di Charlie Hebdo e le negozio Kosher è un’altra cosa, è la dura realtà che ci troviamo ad affrontare, impreparati, in questo secolo nel quale pensavamo di avere vinto in Europa ogni forma di orrore.

Già, l’Europa…durante il periodo natalizio un bellissimo spot di una catena di supermercati inglese ha inondato il web di immagini relative ad un episodio vero successo la notte di Natale di un anno della grande guerra.

In quella notte i nemici: inglesi e tedeschi si scambiarono doni, uscirono dalle trincee e si abbracciarono.

In un altro video, diffuso dalla Comunità europea si ricorda lo stesso episodio allargato in maniera storica: francesi e tedeschi non combatterono, ma deposero le armi insieme. Poi la domanda: forse cominciò da lì l’idea di un’Europa unita tanto che gli Stati Maggiori ne ebbero addirittura paura?

Noi che siamo cresciuti nell’idea che l’Europa non debba più farsi le guerre, che debba fraternamente condividere anche il peso di errori passati, noi che abbiamo sfruttato con le nostre colonie altri paesi in altri continenti dobbiamo ragionevolmente affrontare questa realtà che non deve essere una guerra santa contro l’Islam ma una presa di coscienza che un nostro vecchio tranquillo mondo europeo è finito e quello che abbiamo davanti, un mondo nuovo molto più globalizzato, non ci appartiene più e tutto questo lo dobbiamo affrontare con realismo e consapevolezza della difficoltà delle future convivenze senza retorica ma anche senza facili perbenismi o ancestrali paure.

Io sono Charlie Hebdo

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Questo blog si occupa di musica, cultura, teatro ma questa settimana non è una settimana come le altre.

Tutti abbiamo il dovere di parlare di libertà, di rispetto per le idee dell’altro ma dobbiamo essere consapevoli di essere costretti a vivere in un mondo in cui l’orrore e la violenza ormai siano entrate nella vita di ognuno.

Le vite spezzate nel vile attentato a Charlie Hebdo non sono solo le vite di intellettuali scomodi, di vignettisti strepitosi e iconoclasti, le vite dei poliziotti che erano lì per difendere dei giornalisti che in una strada neanche tanto prestigiosa di quella Parigi minore e vicina al mio cuore non rappresentano solo se stessi. Sono le vite di tutti noi europei, di tutti coloro che ancora ciascuno nel suo piccolo mondo di valori cerca di vivere la realtà di un mondo che cambia tanto rapidamente da rendere difficile anche il più modesto percorso di comprensione.

In questo contesto mi ha molto colpito vedere su Facebook che un grande cantante, un uomo di spettacolo (e questa volta non è il solito tenore di cui parlo spesso), ma il grande basso René Pape

abbia cambiato la sua immagine del profilo adottando quella specie di mantra in tante lingue in cui tutti ci dichiariamo “Io sono Charlie Hebdo”.

Lo ammiravo, e molto, come cantante. Ora gli voglio bene come uomo che sente di dovere in qualche modo di partecipare con la sua testimonianza al rifiuto collettivo di tanto orrore.

Siamo ancora tutti attaccati ai nostri televisori, speriamo tutti che presto i feroci assassini vengano presi, vorremmo, perlomeno io, capire anche dei lati oscuri di questa straziante vicenda che ancora una volta ci ricorda la fragilità della nostra vita civile .

Quelle matite spezzate sono le nostre matite spezzate, quel sangue sui fogli per terra nel corridoio della rivista satirica prestigiosa sono l’immagine forte della fine di un‘ illusione.

Il terrore ideologico vive nella porta accanto, al nostro supermercato, nella metropolitana che prendiamo ogni giorno.

L’unico modo per combatterlo è quello di alzare le nostre mani nude tutti insieme e di gridare forte che la libertà di pensiero è la nostra unica forza, la nostra ultima scelta per difendere la più importante ragione di essere: vivere liberi ciascuno nel rispetto dell’altro.

 

 

 

Il soldato Schlump

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Capita di entrare in libreria per comprare dei regali di Natale e uscire con un nuovo libro in mano.

Non mi succede spesso e generalmente sono nella fascia di età in cui è più probabile che venga la voglia di rileggere piuttosto che lasciarsi sedurre dalle recensioni dei tanti, forse troppi nuovi libri che invadono le librerie proprio sotto le Feste.

Il libro di cui parlo oggi mi ha attirato e come al solito mi sono bastate poche righe di presentazione.

…un libro ritrovato, salvato dal rogo dei libri ordinato dai nazisti nel 1933.

Scritto da un insegnante di liceo e pubblicato anonimo il libro uscì nel 1928 ed è uno straordinario racconto che si svolge durante la prima guerra mondiale

Il suo protagonista, il soldato Schlump che dà il titolo al libro, è un ragazzo che si arruola volontario, giovanissimo e festoso in quella che sarà la prima grande carneficina d’Europa.

Un libro sconvolgente per la scrittura secca e tagliente, per la forte vena pacifista e per la carica di verità scomoda che lo pervade.

il_soldatoIl ragazzo Schlump, un soprannome un po’ volgare, attraversa gli orrori della guerra con incoscienza e gioia, testimone di orrori indicibili e al tempo stesso inconsapevole di ciò che sta vivendo.

Non è un romanzo per signorine, anzi come raccomandava una recensione dell’epoca è un libro che ogni uomo dovrebbe leggere.

Evidentemente non sono un’amante della letteratura romantica.

La lettura di questo libro mi ha tenuta inchiodata per giorni e quando sono arrivata alla postfazione ho anche capito meglio in che libro eccezionale avevo avuto la fortuna di imbattermi in libreria.

Spesso ho la brutta abitudine di leggere “prima“ la postfazione.

Questa volta sono stata fortunata e l’ho letta giustamente alla fine.

In effetti, anche se scritta anonimamente è il perfetto coronamento della preziosa lettura che la precede.

Pubblicato da Neri Pozza con una foto di copertina accattivante quanto fuorviante perché quegli eleganti giovani festosi che sembrano piuttosto uscire da un college inglese ben poco hanno a che vedere col nostro protagonista e con il duro mondo nel quale egli vive la sua grande avventura di soldato.

Non è, come potrebbe sembrare un romanzo di formazione, il classico Bildungsroman tedesco.

Schlump resta ingenuamente se stesso nell’atroce cammino di cui è testimone: il suo sguardo ferocemente realista non si riempie mai di orrore.

La sua visione resta oggettiva, mai emotivamente coinvolgente.

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Hans Herbert Grimm

Ritrovato fortunosamente attraverso il saggio di uno studioso che ha pubblicato nel 2008 l’elenco dei libri finiti nei roghi nazisti Schlump fu scritto da Hans Herbert Grimm e uscì anonimo alla fine degli anni venti.

La sua pubblicazione non ebbe quel successo che il suo autore aveva sperato , la contemporanea uscita del libro pacifista per eccellenza: All’ovest niente di nuovo di Erich Maria Remarque lo relegò in una seconda fila che molto ferì l’autore il quale aveva sperato un successo ben maggiore per la sua opera.

La storia del professore di provincia che seguitò a nascondersi nella sua Turingia fino ad iscriversi al partito nazionalsocialista, la sua triste vicenda di condannato per collaborazionismo alla fine della guerra fino ad essere radiato dall’insegnamento, la sua totale sconfitta che meriterebbe un romanzo oltre il romanzo chiude la lettura di questo libro prezioso che oggi consiglio a tutti coloro che armati di quel coraggio che serve sempre quando si voglia aprire davvero gli occhi su cosa sia l’orrore della guerra, di qualsiasi guerra, è la segnalazione regalo che faccio ai miei affezionati lettori attraverso il mio piccolo blog.

 

Ancora sul Lohengrin

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Passa e ripassa in questi giorni su Classica un Lohengrin del 2009 del Bayerischestaatsoper con un Kaufmann appena quarantenne debuttante nel ruolo del titolo in una regia che a quanto leggo dai commenti al bel pezzo ospitato sul mio blog e scritto da Caterina De Simone non ha trovato il gradimento di molti spettatori.

Quello che scrivo non è però in polemica con la mia amica con la quale sono sempre in sintonia ma mi viene sollecitato dalla scarsa valutazione di molti che ancora adesso privilegiano la messa in scena “bella” a quella che ha in se una forte idea innovatrice.

Sarà che da un po’ di tempo sono molto più abituata alle Inzenierung di matrice germanica che al gusto elegante di mise en scene impreziosite da bei costumi che mi viene più facile amare il nuovo quando è generato da un’idea forte, come dice lo stesso Kaufmann in una sua bella e lunga intervista sul tema.

Anche io avevo molto amato il Lohengrin dubbioso e problematico di Klaus Guth, quest’uomo venuto dal nulla e non a caso lo stesso regista aveva citato la sraordinaria e misteriosa apparizione sulla piazza di Norimberga di una sorta di smemorato, Caspar Hauser, come fonte di ispirazione per il suo Lohengrin.

Un Lohengrin molto umano, come sottolinea anche la De Simone, sconfitto e perdente, reso splendidamente nelle due famosisime arie In fernem Land e Mein lieber Schwan da un Kaufmann eccezionale .

Guardando e riguardando la messa in scena di Richard Jones, a mio avviso un regista molto geniale, si coglie invece meglio la missione ultraterrena del cavaliere del cigno.

In una società laica e formale come poteva essere in questa della messa in scena molto bavarese anni trenta c’è una giovane ragazza accusata ingiustamente di aver ucciso il fratellino e che sogna solo di costruirsi una casa borghese nella quale arriva l’extraterrestre, una specie di guru New Age che lentamente porta tutta la comunità a convertirsi al nuovo ordine mistico religioso ed ecco quindi spiegate tutte le magliette celesti che tanto hanno turbato lo spirito estetico nelle nostre affezionate scaligere.

Il male è rappresentato dalla cattiva Ortrud, dichiaratamente germanica e un po’ filo-nazista nella sua biondissima accentuazione ariana che fra l’altro invoca un Wotan e Fricka ancora bel lungi da venire nel Ring.

La scritta fiorita sulla casa degli sposi è una citazione di quello che Wagner volle fosse scritto sulla sua casa di Bayreuth: Hier wo mein Wähnen Frieden fand – Wahnfriend – sei dieses Haus von mir bennant, (grosso modo “qui dove la mia delusione trova pace , qui chiamerò la mia casa”).

Il Lohengrin dal bellissimo canto spiegato di Kaufmann si trova sì sconfitto, ma sconfitto nella sua missione divina, il suo è un dolore ben diverso da quello della Scala. Qui è un angelo ferito che singhiozza prima di lasciare quella pace terrena che sperava di avere trovato nella tenerezza di una casa con la culla già pronta, con la carrozzina fuori della porta, in quel suo essere falegname e costruttore di pace.

La direzione stupenda di Kent Nagano, la compagnia di canto di alta qualità , cito volentieri Micaela Schuster e soprattutto il Telramund di Wolfgang Koch fanno si che questo Lohengrin a mio avviso meriti di più di una sbrigativa valutazione tipo “ mi ha irritato” come ho letto tra i commenti al bel pezzo di Caterina.

Ma il discorso potrebbe essere anche più lungo, potremmo cominciare ad analizzare tutti i vari personaggi che un genio come Kaufmann riesce ad interpretare facendo dei suoi Werther degli unicum così come dei suoi molteplici Don Josè e Don Carlo….

Uno nessuno e centomila, mai come per lui questo titolo pirandelliano rende meglio l’idea della forza interpretativa dell’attore.

 

 

 

 

 

Capodanno e connessi

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Infuriano gli eventi pre-natalizi, post-natalizi e “in-tra-fra “ Natale e Capodanno.

Nei nostri teatri l’immancabile balletto “sulle punte” con compagnie russe, tutte griffate Bolshoi e Marinsky…

Poco importa se i lustrini sono un po’ d’antan e i tutù un po’ consunti.

E giù Schiaccianoci, Laghi dei cigni e Giselle a gogo.

Poi non ci facciamo mancare i Gospel, anche se qualche volta si ha l’impressione che tutte questi Harlem group siano un po’ raccogliticci tra i nostri immigrati recenti.

Per carità, nessuna snobberia, solo che la qualità di queste offerte non è la più sublime.

Se poi attraverso la televisione andiamo a vedere i grandi eventi all’estero non è che ci sia molto da invidiare aldilà dei grandi nomi, ovviamente.

Uno strano disagio ha procurato l’apparizione di Jonas Kaufmann all’Helen Fischer show il giorno di Natale, ci sono i dischi da vendere e ce ne faremo una ragione.

http://youtu.be/oIo-Z7-RLFs

Anche alla Semperoper di Dresda il concertone aveva abbastanza l’aria aziendale, mi aspetto il Capodanno da Vienna al Konzerthaus con le colonne di tutti i colori, sempre un po’ pacchiane.

Si salva solo il grande, bellissimo concerto di Capodanno dal Musikverein: il solo, il vero concerto che abbiamo aspettato per anni anche se ora non lo vediamo più in diretta ma in differita perché la Rai ha voluto il suo evento italiano a fare concorrenza.

Io amo moltissimo il grande inimitabile concerto che ha fatto conoscere a generazioni di persone la sala dorata e infiorata dai fiori di Sanremo con tutti i giapponesi (e ora anche russi e cinesi) paganti nelle prime file, tutti rapiti dalla magia del valzer viennese.

Confessi chi non ha battuto le mani alla Radetzky March…io l’ho fatto anche con gli sportelli della macchina aperti in un bel prato innevato davanti ad una baita in montagna ed è uno dei ricordi più felici dei miei molti capodanni.

Poi sul podio si sono alternati i nomi più prestigiosi, le magiche bacchette: da Von Karajan a Bernstein, da Maazel a Mehta, cui tocca quest’anno di nuovo il grande evento.

Cambia solo, ma di poco, il programma ed è forse l’unica suspence di un avvenimento di cui sembra di sapere tutto.

Ma il grande concerto di Capodanno dal Musikverein è tutto nel suo fascino ripetitivo, io già sono in attesa col telecomando in mano.

                                                         Buon anno a tutti!!!

Lohengrin uno e due

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Articolo di  Caterina De Simone

Le mamme di una volta dicevano sempre: “I paragoni sono odiosi!” stringendo le labbra in una smorfia severa. Probabilmente è vero, però è quasi spontaneo fare un paragone fra il primo e l’ultimo, in ordine cronologico, Lohengrin dell’unico vero Cavaliere del Cigno oggi in circolazione. L’occasione è data dalla ri-trasmissione della performance monacense, datata 2009, su Sky Classica.

I tre anni fra la prise de role e la performance scaligera del 2012 hanno indubbiamente segnato un processo di maturazione importante che ha di sicuro orientato e spinto la carriera di Jonas Kaufmann (nel caso non aveste ancora capito…è lui l’unico figlio di Parsifal possibile dei nostri tempi).

Le sue due prestazioni vocali non potrebbero essere più lontane una dall’altra. Certo in mezzo sta il Lohengrin di Bayreuth, datato 2010, noto come quello “dei topi”. Ma è con la regia scaligera di Guth e la naturale evoluzione della voce che si notano i cambiamenti più radicali. La sfrontatezza vocale monacense infatti a Milano è tutta introiettata verso la fragilità dell’eroe malgré lui.

Esaminiamo il terzo atto che è il banco di prova per un tenore che affronti quel ruolo. Alla BSO la caratterizzazione del personaggio punta sulla solitudine dell’essere superiore sconfitto dalla miseria dell’animo umano. L’incredulità e la disperazione sono palpabili in chiusura del duetto della camera nuziale, e ancor più nel muto singhiozzare alla ribalta, Lohengrin accasciato sulla buca del suggeritore. Lo stesso episodio alla Scala si fa logica conclusione di una sensualità irruenta che spaventa l’Elsa “disturbata” proposta dal regista Guth. In un certo modo è come se il Cavaliere del Cigno fosse consapevole di ciò che lo aspetta. Nel Gralserzählung cantato nel teatro bavarese l’incredulità si fa evidente, non ancora metabolizzata, nello sguardo allucinato e nella mano che perentoriamente afferra quella di Elsa che vorrebbe invece farlo tacere. A Milano “In fernem Land” è invece tutto intriso di amarezza e di un dolore latente che rispecchia una accettazione passiva del ruolo di eroe che sta stretto al protagonista. Mein lieber Schwann e l’addio ad Elsa sono interpretati come risposta ad una punizione necessaria al desiderio di umanità di questo Lohengrin profondamente contemporaneo. Al contrario a Monaco prevale la dolcezza ultraterrena della creatura superiore giunta finalmente a comprendere e compatire la natura fallace dell’uomo, qui incarnata da Elsa.

Quanto di tutto questo sia da ascrivere alla mano dei registi, Jones in Baviera e Guth a Milano, non è dato di saperlo. Certo è che la caratterizzazione del personaggio non solo vocalmente ma come prova d’attore è nei due casi molto diversa, nonostante l’anello di congiunzione costituito da Anja Harteros sia presente in entrambe le occasioni. Il soprano tedesco è il logico completamento alla personalità prorompente di Jonas Kaufmann. Precisa, affidabile, mai eccessiva, in scena riesce ad imbrigliare il genio del suo partner. I due si fidano ciecamente l’uno dell’altro, i loro duetti nel repertorio italiano (non solo Lohengrin insieme) costituiscono sempre il vertice di ogni performance al quale nessuna Kristine Opolais, per citarne una, potrà mai aspirare.

Se in futuro questo Cavaliere del Cigno dovesse ripresentarsi in scena, come già sperano i parigini, saprà di certo offrire ancora un altro volto all’eroe wagneriano.

Caterina De Simone

 

Raccontino di Natale

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Sotto le feste è carino ricordare i parenti e anch’io ho fatto una telefonata particolare.

Mio cugino, anzi un cugino di mia madre, Angelo Loforese, famoso tenore degli anni sessanta ormai novantaquattrenne vive a Milano e mi pareva giusto fargli un salutino natalizio.

Mentre facevo il numero speravo comunque che non mi rispondesse qualcuno per dirmi che magari non stava molto bene per venire al telefono, invece la sua chiara e forte voce educata al canto mi ha risposto un bel:

-Pronto.

Ciao, cugino caro, ti vorrei fare gli auguri per Natale e lui carinissimo,

-Anche io pensavo a te in questi giorni, mi hai preceduto.

Scusami sai sono stata in giro per musica, a Monaco per una Manon Lescaut.

e lui in risposta:

-La mia opera preferita di Puccini, molti dicono che la migliore è Boheme, ma Manon… e qui un sospiro al ricordo.

Io per restare in tema gli dico:

-Pazzo son…e lui: Sai che a Malta una volta a metà ho avuto un applauso e ho dovuto cantarla due volte!

Poi con tranquillità mi informa che ancora dà lezioni di canto e che proprio quella sera sarebbe uscito perché ha un impegno, lo hanno fatto presidente di un concorso di canto al Rosetum, insomma ha ancora molto da fare.

Dio lo benedica , novantaquattro anni suonati!

Dopo i saluti di rito e la promessa di andarlo a trovare quando capiterò a Milano ho cercato tra i miei CD il suo intitolato Un mito della lirica e c’è proprio l’aria Pazzo son dalla Manon Lescaut.

Una incisione live…la qualità ovviamente diversa dalle incisioni di oggi, ma un brivido comunque me l’ha procurato .

Non a caso una copia di quel vecchio CD l’avevo regalato a Kaufmann al tempo del Trovatore, altro cavallo di battaglia di mio cugino.

Spero che Jonas non se lo sia perso, magari senza colpa, semplicemente perché confuso tra i troppi regalini di dolcetti, fiori e cimeli vari che gli vengono regalati dagli ammiratori all’uscita dei teatri sia caduto nel dimenticatoio.

Sono sicura che sentire quelle voci di una volta gli può solo fare bene, confermandogli quanto stranamente quella voce lontana assomigli notevolmente alla sua.

Il mondo fluido

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Se c’è una cosa bella in questo nuovo millennio è la straordinaria fluidità dell’informazione in rete. Può piacere, spaventare, irritare qualche volta, ma assolutamente non la si può fermare.

Per questo quello che è successo ieri sera a proposito di un brano cantato da Jonas Kaufmann in uno spettacolo natalizio molto pubblicizzato sulla televisione austriaca si presta a qualche riflessione e forse anche ad un pizzico di ironia.

Il brano, cantato verso le venti arriva attraverso Dropbox in contemporanea attraverso vari gruppi dedicati al cantante.

Ovviamente le persone generose condividono con gli amici di Facebook e…orrore!

Qualcuno si sente proprietario del codice di accesso e blatera: cancellate subito! Ovviamente molti non sanno neppure da dove sia arrivato il link, il dono viene salutato con grande gioia ed è tutto un ringraziamento: la rete fa festa.

Ma nonostante le rassicurazioni, i chiarimenti in tedesco c’è chi non si da pace…e riesce sadicamente a chiudere Dropbox quando diciamo così in realtà i buoi sono scappati a centinaia…

Infatti oggi del dolcissimo brano si hanno varie versioni su Youtube, più o meno lunghe. La fatidica sigla figura anche in siti, diciamo così, istituzionali e personalmente mi sono divertita a scaricarlo in due o tre modi…non si sa mai la vendetta.

Fu così che un tenerissimo canto di Natale cantato in una deliziosa chiesa austriaca in un paese di fiaba che ha una piazza che si chiama Stille Nacht cantato da un ispirato e dolcissimo tenore divenne una lotta di tipo medioevale come se la rivoluzione informatica fosse passata invano nella testa di qualche disinformata signora rimasta con la testa ai tempi del petit point e dell’uncinetto.

Memory

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Chi si fosse trovato a passare al Parkring di Vienna in una tiepida mattina di sole di metà dicembre avrebbe potuto vedere una vecchia signora col trolley e una cartina di Google in mano cercare il nome di un albergo dall’altro lato del viale.

Girando la testa verso il parco aveva rivisto con un tuffo al cuore la statua dorata di Johann Strauss tra le fronde del parco.

Molti anni prima, da ragazza, si era ricordata di essere stata fotografata con un gruppo di compagne di scuola proprio là di fronte.

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Poi il flash era passato e con gran soddisfazione aveva letto il nome del suo albergo dall’altra parte del viale, lo aveva sorpassato senza accorgersene.

Durante il giorno e poi la sera al concerto, non aveva pensato più a quella visione.

La mattina dopo però mentre chiudeva il valigino lilla delle sue trasferte musicali si era ricordata della visione del giorno prima e uscendo per andare all’aeroporto, stavolta in una nebbiolina triste più adatta al suo animo depresso per avere chiuso il suo personale calendario musicale dell’anno in corso, si era messa in mente di tornare nel parco, uno sguardo alla statua dorata, come un saluto , lo voleva proprio dare.

Ma lì davanti aveva trovato un gruppo compatto di giapponesi in posa e si era quasi vergognata.

Se ne stava andando via quando una giapponesina gentile le ha indicato l’iPad che ancora teneva in mano mimando se voleva che le facesse una foto.2

Così grazie alle gentile signorina del Sol Levante la foto è stata fatta e ora la vecchia signora può raccontare per immagini un salto di sessanta anni esatti.